Lo skills mismatch: vera minaccia del professionista 4.0?

Lo skills mismatch: vera minaccia del professionista 4.0?

Non sempre possedere delle ottime competenze tecniche ci qualifica come professionisti efficaci e in grado di fare la differenza. Tali competenze specialistiche rappresentano, ormai, la condizione necessaria, ma assolutamente NON sufficiente per rendere efficiente la propria crescita personale e professionale, creare valore e distinguersi nel mercato del lavoro.

L’attuale contesto economico, sempre più complesso, fluido e competitivo vede le aziende combattere strenuamente per non soccombere: ciò che le contraddistingue maggiormente è la flessibilità, flessibilità che viene richiesta tanto alle imprese quanto ai lavoratori.

Questi ultimi in particolare devono saper rispondere alle frequenti richieste di cambiamento, anche radicale a volte, in termini di mansioni, di azienda e addirittura di professionalità. Fino a qualche anno fa, lo  sviluppo di carriera prevedeva uno sviluppo verticale piuttosto lento all’interno di una unica azienda, mentre gli spostamenti orizzontali erano molto limitati. Oggi la situazione è radicalmente cambiata: occorre ripensare il concetto di posto fisso: la fedeltà alla propria professione infatti, sta di fatto sostituendo quella nei confronti dell’azienda, con la quale i legami stanno diventando via via sempre più deboli.

Accanto ad una crisi lavorativa si sta vivendo una vera e propria crisi professionale: le competenze tecniche e una forte motivazione infatti non bastano più a garantire una soddisfacente crescita professionale e vengono sempre più considerate un pre-requisito dalle aziende che sono sempre più competitive e sempre più esigenti nei confronti dei lavoratori e alla ricerca di competenze che spesso e volentieri non sono disponibili sul mercato.

E’ il problema dello skills mismatch, ovvero il disallineamento tra le competenze richieste dal mondo del lavoro e quelle acquisite attraverso i percorsi formativi tradizionali e dunque disponibili sul mercato, che sembra non affliggere esclusivamente il nostro paese, ma rappresenta un problema di portata pressoché globale. A sottolinearlo è il report Fixing the Global Skills Mismatch, realizzato dal Boston Consulting Group e pubblicato a gennaio 2020, che evidenzia come la mancanza di lavoratori adeguatamente formati per i ruoli professionali del mondo del lavoro attuale incida in maniera assai significativa sulla dinamiche di crescita, gravando come una tassa del 6% sull’economia globale, pari a circa 5 miliardi di dollari.

Nel report è interessante notare che “i datori di lavoro non riescono a trovare personale con le competenze necessarie per un determinato settore o in un determinato luogo. Per questo finiscono con l’assumere persone troppo o troppo poco qualificate: entrambe soluzioni inefficienti, che bloccano le persone e le aziende nella cosiddetta “qualification trap”.

Nel report, inoltre, si legge come lo skills mismatch, che allo stato attuale coinvolge circa 1,3 miliardi di lavoratori in tutto il mondo, ossia il 40% di tutti quelli dei paesi OCSE, sia di fatto destinato ad aumentare nei prossimi anni, arrivando a coinvolgere oltre 1,4 miliardi di persone entro il 2030, con danni sempre più profondi per l’economia mondiale.

In sostanza quando un’azienda non trova il candidato ideale con le competenze richieste è costretta ad assumere, alla fine, persone che non hanno queste competenze. Chi cerca lavoro, invece, accetta qualsiasi mansione pur di avere uno stipendio e molto spesso anche inferiore alle proprie aspettative.

Questo è  in sostanza lo skills mismatch, un concetto molto meno ovvio del semplice ‘skills gap’,  poiché crea l’illusione di un mercato del lavoro funzionante, che porta stabilità economica e sociale. Ma in realtà il prezzo da pagare è pesante”, sottolinea lo studio. Lo skills mismatch si traduce infatti in una perdita di produttività. “I lavoratori poco qualificati sono meno produttivi, e costano di più al datore di lavoro, che deve investire in corsi di formazione in corsa. E anche mantenere lavoratori molto qualificati in ruoli non adatti è controproducente, perché chiederanno sempre aumenti di stipendio e non potranno esprimere tutto il loro potenziale”.

Il mondo del lavoro cambia molto velocemente: sembra che già nel 2022, il 27% dei lavoratori sarà impiegato in mansioni che ancora non esistono. Alcune competenze tecniche diventano obsolete nell’arco di due-cinque anni, mentre nascono nuove professioni che in breve tempo diventano specialistiche.

Il ritmo di questi cambiamenti è così veloce da non poter essere colmato da nessun percorso formativo: i tentativi del sistema educativo di aggiustare in corsa le proposte si stanno rivelando molto faticosi e non sempre efficaci, mentre i tempi necessari per la formazione si stanno allungando e i costi sono sempre più elevati, tanto per le aziende quanto per i singoli lavoratori.

L’impatto dell’Industria 4.0 nei contesti nazionali più avanzati dal punto di vista tecnologico ha già determinato radicali trasformazioni di molteplici aspetti della catena lavorativa, consentendo una crescente digitalizzazione delle filiere produttive, il rinnovamento dei modelli di business e una sempre maggiore integrazione tra ambiente fisico e digitale.

Senza dubbio, le conseguenze più significative di questa trasformazione digitale sono rappresentate dall’esigenza di una modifica nel profilo del lavoratore standard, il quale non può più limitarsi alla semplice applicazione ripetitiva di conoscenze apprese in precedenza, ma è costretto in misura sempre maggiore ad esercitare capacità critiche, creative e riflessive rispetto alle proprie strategie d’azione e ai propri obiettivi, come nei confronti del contesto in cui opera abitualmente. Egli di fatto è chiamato a generare continuamente nuove conoscenze a partire da ciò che ha a disposizione, a diventare più innovatore che semplice produttore.

Se da un lato, quindi, le aziende cercano innovatori ovvero persone capaci di apportare valore all’azienda e non semplicemente di applicare in maniera ripetitiva concetti appresi, dall’altro, la precarietà dei rapporti lavorativi porta queste stesse aziende ad investire sempre meno sui lavoratori che non sono più concepiti come “risorse da valorizzare”. Allo stesso tempo i tradizionali percorsi di formazione sembrano non riuscire a formare professionisti che posseggano le competenze necessarie di cui il mercato ha bisogno.

Le conseguenze di questo skills mismatch aggravate dal fatto che le aziende sono sempre meno intenzionate ad investire sul singolo lavoratore, propio a causa della precarietà dei rapporti lavorativi, portano la formazione professionale completamente a carico del singolo, che deve barcamenarsi per acquisire quelle competenze necessarie che il mercato richiede e reinventarsi continuamente a seconda delle esigenze.